La Vedova e il Giudice
(Luca 18,1-8)
don Matteo Crimella
- Lectio
Nella sezione del «grande viaggio» del Vangelo secondo Luca (9,51-19,44) i discorsi a proposito del regno di Dio non ne sottolineano più l’irruzione ormai in atto per mezzo dei gesti salvifici di Gesù; così era stato nella prima parte della narrazione (4,14-9,50), dopo l’episodio programmatico nella sinagoga di Nazaret (4,16-30). Ora l’accento sembra spostarsi in avanti: pare che il Regno sia una realtà che invece di avvicinarsi si allontana. Gesù esorta a non avere timore nel tempo della persecuzione (12,1-12), chiede di abbandonarsi alla provvidenza del Padre (12,22-32), invita a tenersi pronti nella vigilanza (12,35-48), sprona a convertirsi senza inutili dilazioni (13,1-9), cioè ad entrare per la porta stretta (13,22-30), ad accogliere l’invito al banchetto senza accampare scuse (14,15-24), a vigilare nella vita quotidiana (17,20-37), a far fruttare i doni ricevuti (19,11-27). Si avverte che il Regno è già presente, ma non ancora in modo definitivo. Forse dietro una tale insistenza di Gesù, v’è una comunità che dopo i primi fervori nell’attesa del ritorno del Signore, si sta rilassando, perdendo la tensione escatologica degli inizi.
In questo contesto appare significativa la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna, parabola che appartiene al patrimonio proprio di Luca.
L’accento del narratore è duplice. Da una parte si ricorda la necessità di pregare. La scelta dei vocaboli non è casuale in quanto essi hanno una forte connotazione cristologica nel racconto lucano. Soggetto della preghiera è stato anzitutto Gesù, caratterizzato da Luca proprio in questo atteggiamento di intimità con Dio: così è stato rappresentato al Battesimo (3,21), poi in luoghi deserti (5,16) e sul monte (6,12), in particolare quello della trasfigurazione (9,28.29), quindi in solitudine (9,18) ma pure alla presenza dei discepoli (11,1). Il Maestro ha pure raccomandato ai discepoli di pregare, sia esortandoli (6,28), sia insegnando loro come rivolgersi a Dio (11,2-4). Sicché il riferimento alla preghiera dei discepoli non stupisce, in quanto evoca un motivo già risuonato nel racconto (11,5-8). La novità, invece, sta nella proclamazione della “necessità”. Il verbo “è necessario” (deî) allude a quel disegno divino cui Gesù si sottopone in obbedienza: sono le cose (o la casa) del Padre evocata dal dodicenne al tempio (2,49), è la necessità di annunciare in altre città la buona notizia del Regno (4,43), è il preannunzio della passione (9,22; 17,25), è la decisione di camminare verso Gerusalemme (13,33). Nel nostro passo, non senza sorpresa, soggetti della necessità sono i discepoli, chiamati ad una conformazione a quella volontà divina rivelata e vissuta pienamente da Gesù, volontà da ricercare e perseguire anzitutto nella preghiera. Il secondo accento del narratore cade sulla modalità della preghiera: essa deve essere «assidua», «continua», fatta «in ogni momento» e «per qualsiasi necessità» (questo è in senso di pantoté); insieme la preghiera non deve «scoraggiarsi», cioè non deve «rilassarsi», non deve «mollare la corda», ma continuare la lotta. Una simile perseveranza assume quasi la forma dell’ostinazione nel fidarsi di Dio.
Luca introduce la parabola (vv. 2-5) di Gesù. La presentazione del giudice e della vedova è a tinte forti, al punto che questi personaggi assomigliano quasi a caricature più che a persone reali. Il primo personaggio è un giudice (v. 2) caratterizzato dallo stesso narratore come l’antitesi dell’uomo giusto. La mancanza di timore di Dio e di rispetto per le persone pone il giudice agli antipodi di quanto aveva cantato Zaccaria, che celebrava coloro che servivano Dio «in santità e giustizia» (1,75); la trasgressione dei due imperativi (amore verso Dio e verso il prossimo) che il dottore del Legge aveva citato in risposta alla domanda di Gesù (10,27) connota l’uomo come persona irresponsabile e pericolosa, certamente negativa. Pare che un simile comportamento non sia eccezionale, ma rappresenti la norma, all’interno di una società dove la categoria dei magistrati faceva di tutto per aumentare il proprio prestigio e spesso con mezzi non leciti.
Il secondo personaggio è una vedova (v. 3). La donna vedova, avendo perso il marito, è stata privata della sua protezione e del suo supporto economico, sicché si trova in una situazione di vulnerabilità e di povertà. A questo proposito vi sono molti passi dell’Antico Testamento dove la vedova, insieme all’orfano e allo straniero, è l’incarnazione della fragilità sociale, tanto che la Legge insisteva a non negare la giustizia a una simile persona (Es 22,21-23; Dt 24,17; 27,19). Luca sottolinea il ripetuto e continuo venire della vedova che così entra nello spazio del magistrato con una richiesta di giustizia. La naturale posizione delle donne, stando alla documentazione in nostro possesso, era all’interno delle mura domestiche, nella sfera privata della casa e non negli spazi pubblici delle corti. Analogo discorso va fatto per le parole della donna al giudice: analizzando i documenti legali dell’epoca, tutte le comunicazioni coi magistrati sono colme di formule di deferenza e di titoli onorifici utilizzati per indirizzare loro le istanze. Per mezzo di titoli e formule di cortesia le donne che si rivolgevano ai magistrati davano esempio di docilità e sottomissione. Al contrario, la vedova della parabola è così diretta da suscitare nel lettore il sospetto che la sua petizione non sarà accettata, anzitutto per un vizio di forma. Inoltre la donna chiede una «giustizia» che pare essere una «vendetta» (il termine ekdíkesis può significare l’una e l’altra) contro il suo «avversario». La situazione è ben chiara: la donna ha preparato una petizione contro un avversario, ma il giudice non trova sufficienti motivi per istruire la causa in suo favore, quindi rifiuta di procedere. La situazione è paradossale: la donna non rispetta i ruoli sociali che la vorrebbero silente e invisibile, ma nel contempo insiste e spera nell’intervento del giudice per aver ragione sul suo avversario; una mera illusione?
L’introduzione di un ritardo ha l’effetto di inspessire l’attesa e di far salire la tensione (v. 4). Abbiamo qui un monologo interiore. La sua singolarità sta tutta nella ripetizione delle stesse notizie già note, in quanto il narratore aveva detto chi fosse il giudice (v. 2).
Il giudice, però, mette in luce un aspetto finora sconosciuto della donna vedova. Il verbo utilizzato (hypopiázo) può avere sia il senso traslato di «tormentare», sia il senso molto più concreto di «fare un occhio nero». A fronte della presentazione della vedova offerta dal narratore – una donna che non conosce nemmeno le buone creanze del linguaggio formale – la possibile violenza nei confronti del giudice appare essere possibile e coerente col personaggio. Se valesse la lettura più sfumata, saremmo di fronte all’esasperazione del giudice; se invece prendesse piede la lettura più radicale (e violenta), l’uomo si troverebbe nell’impossibilità di difendere se stesso dalla donna, a meno di perdere il prestigio che la sua carica porta con sé, muovendo anch’egli le mani.
Il gioco della parabola è tutto legato anzitutto al contrasto fra la caratterizzazione del giudice e la fragilità della vedova, poi alla stravaganza del comportamento della donna che suscita un’attesa, la quale si trasforma in sorpresa a fronte della decisione del giudice. L’attesa del lettore è frustrata, ma non quella della vedova che vede realizzarsi quanto sperava.
Al termine della parabola a prendere la parola non è Gesù, ma «il Signore»: la solennità del titolo non è casuale perché sottolinea l’autorità di chi parla e l’importanza di quanto afferma. Anche l’indicazione «ascoltate» (o «prestate attenzione») ha un forte valore e concentra l’attenzione degli ascoltatori e pure del lettore su quanto ha detto il giudice, qui ulteriormente caratterizzato (alla lettera): «il giudice dell’ingiustizia». L’ulteriore sottolineatura introduce il punto essenziale cui mirava il parabolista, ovverosia il mistero di Dio. Il ragionamento è a fortiori ma rimane sottinteso: se addirittura un giudice così negativamente caratterizzato cede di fronte all’ostinazione di una vedova, quanto più Dio (che è ben diverso) ascolterà le preghiere dei suoi eletti.
Compreso il ragionamento, anche la seconda domanda (v. 7b) è relativizzata. Questa domanda si può interpretare in due modi: la prima corrisponde alla traduzione «e tarda a loro riguardo?», mentre la seconda alle parole «ed è longanime a loro riguardo?». Nell’uno e nell’altro caso si tratta di una domanda che, sulla base della conclusione logica della parabola, attende una sola risposta da parte degli interlocutori e del lettore: Dio non è come il giudice. Sia che procrastini il suo intervento, sia che mostri misericordia, egli comunque agisce a favore degli uomini. Ancora una volta è possibile che Luca intenda giocare sottilmente sul doppio senso dell’espressione. Il contesto precedente (17,20-37) offre un’ulteriore chiave di comprensione: il tempo della persecuzione è tempo d’invocazione in attesa della definitiva manifestazione del regno di Dio. E tuttavia questo tempo è caratterizzato pure da molte grida verso il cielo per chiedere giustizia: esse però non ricevono immediata risposta. Così, paradossalmente, Dio sembra essere un giudice ingiusto, tergiversante, cinico, distante. Se la parabola dà voce all’esperienza della lontananza, l’interpretazione che ne dà «il Signore» nega che questa sia la verità di Dio: egli ascolterà le preghiere di chi lo invoca. A questo punto si comprende il nesso con la cornice iniziale (v. 1): la necessità della preghiera fatta con insistenza e fiducia è motivata dalla certezza dell’intervento di quel Dio che mostra il suo piano salvifico proprio per mezzo del Figlio Gesù. Un intervento non solo certo ma pure «in breve [tempo] (en táchei)» (v. 8a).
In connessione con la cornice iniziale è pure la domanda conclusiva (v. 8b) riguardante la fede. All’interesse teologico segue quello antropologico: se l’intervento di Dio è certo, pur avendo tempi differenti da quelli previsti dagli uomini, i discepoli devono preoccuparsi della propria fede. Il giudizio porrà in luce la verità dell’uomo e quindi l’autenticità della fede che si esprime nella preghiera. Spinge in questo senso anche il parallelismo con la parabola dei servitori che vegliano (12,35-38) e il detto sul padrone di casa e il ladro (12,39-40), cui fa seguito una domanda di Pietro e la relativa risposta di Gesù (12,41-48). Nell’uno e nell’altro contesto si utilizzano i titoli «Signore» (12,42; 18,6) e «Figlio dell’uomo che viene» (12,40; 18,8). Il «Signore» è visto nelle funzioni che eserciterà come «Figlio dell’uomo» nel momento del giudizio: la parola definitiva sulla storia sarà pronunziata da colui che ha rivelato il mistero di un Dio ben diverso dal giudice della parabola, il Padre della misericordia (15,11-32), in ascolto dei suoi figli.
La domanda conclusiva mostra la chiara consapevolezza che la fede vacilli col passare del tempo. I discepoli di Gesù – non solo quelli storici – sapranno custodire la loro fede mentre le ingiustizie continuano nel mondo, oppure si scoraggeranno e saranno impreparati per la venuta del Figlio dell’uomo? La Chiesa ha presto compreso che questa attesa sarebbe durata a lungo. Per tale ragione, la parabola mantiene tutta la sua attualità, sia nel tener desta l’attesa del ritorno del Figlio dell’uomo, sia nell’indicare la fiducia nella bontà misericordiosa di Dio, a fondamento della speranza.
- Meditatio
Una simile parabola ci interroga molto.
Una prima domanda riguarda proprio l’immagine di Dio che noi abbiamo nel cuore. Non è da escludere, infatti, che sotto sotto pensiamo a Dio esattamente come ad un giudice, un giudice terribile e spietato, addirittura cinico. Che cosa ne consegue? Che il nostro atteggiamento è la paura, una paura che ci schiaccia, che trasforma la nostra relazione con Dio in una relazione segnata dalla mancanza di libertà e di fiducia. Spesso questi atteggiamenti sono ben nascosti, quasi impercettibili, traccia di un’educazione o di una formazione che ci ha segnato anche con alcune notevoli ferite; questi atteggiamenti rischiano pure di non emergere ma si sedimentano nel cuore. È la paura per il dio spione, per il dio controllore, per il dio giudice implacabile. Ebbene, Dio non è così! Dio è ben diverso e non smette di manifestarsi come Padre colmo di misericordia e di attenzione per ciascuno di noi. Ecco il primo grande insegnamento della parabola: Dio non è un giudice!
Percepisco nella vita quotidiana la presenza di Dio come un Padre colmo di amore e di misericordia? So riconoscere la sua cura nei miei confronti? Gusto nella preghiera ma pure nell’esperienza quotidiana la sua presenza provvidente, la sua attenzione nei miei confronti, la sua paternità appassionata? Questa percezione è manifestata dal linguaggio. Quando noi parliamo e facciamo riferimento a Dio ringraziandolo per la sua Provvidenza, lodandolo per la sua misericordia, sentendolo presente in tanti momenti della vita quotidiana, questo è il segno che ci riteniamo figli amati, custoditi, addirittura coccolati. Ma allorché il nostro linguaggio esprime paura, tradisce volontà di restare nascosti o, peggio ancora, dice falsità, noi viviamo male e trasmettiamo una percezione di Dio totalmente errata.
Il secondo pensiero riguarda la preghiera. Quando io ero in seminario la preghiera era sempre un momento meraviglioso. Toccavo il cielo con un dito. Non mancavano le difficoltà, ma prevalevano l’entusiasmo e la gioia per colui che mi aveva chiamato, per colui a cui stavo dando la vita. L’adorazione era un tempo splendido, la lectio divina uno fruttuoso esercizio quotidiano, la Messa un appuntamento desiderato. Con passare degli anni tutto è cambiato. Ci sono sacche di fatica, momenti di tristezza, tempi dove l’Eucaristia pare abitudinaria, la Parola addirittura muta, il Salterio arido. E poi succede di addormentarsi durante l’adorazione, di guardare l’orologio perché il tempo non passa mai, di recitare i salmi pensando a quello che dobbiamo fare durante la giornata, di vagare con la fantasia e coi ricordi. Facciamo, cioè, l’esperienza della nostra debolezza, della nostra fragilità, ma pure del vuoto, della desolazione. Quel Signore a cui abbiamo dato la vita ci sembra lontano, assente, muto. La nostra preghiera si fa molto più semplice, quasi scarna. Eppure, con questa esperienza di povertà, v’è pure contemporaneamente un’altra esperienza: non possiamo fare a meno della preghiera. La desideriamo, la cerchiamo, ne sentiamo l’assoluta necessità. Meglio: sentiamo l’assoluta necessità del mistero di Dio e ci rendiamo conto che non possiamo vivere senza di lui.
Facciamo, cioè, l’esperienza di un passaggio assolutamente necessario. Eravamo partiti desiderando la santità ed ora ci troviamo ad offrire al Signore la nostra povertà. Ma in questa povertà che tocca la nostra vita quotidiana e si riflette nella preghiera, risplendono non tanto la nostra volontà, non solo i nostri desideri, bensì la grazia di Dio e la sua forza.
Da giovani o da novizie grande parte l’aveva il nostro io. Ora quell’io è molto ridimensionato e risplende il mistero di Dio.
Ci rendiamo pure conto di un’altra esperienza che a poco a poco si fa nostra. La preghiera, pur nelle sue difficoltà, ci ha plasmati e ci plasma a desiderare le cose di Dio. Abbandoniamo la mondanità e amiamo la carità; non pensiamo ad accumulare ma diventiamo attenti davvero ai poveri; ragioniamo non in termini di efficienza ma secondo la logica del Vangelo. La preghiera ci uniforma a Cristo, nostro unico maestro.
Un ultimo pensiero riguarda la speranza, profondamente unita alla perseveranza, l’atteggiamento esplicitamente richiesto nella parabola che stiamo meditando. Cerco di spiegarmi. Parto dall’invocazione che chiude l’Apocalisse, quindi l’intero Nuovo Testamento: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). Questa invocazione designa perfettamente l’idea cristiana di speranza. Si invoca il ritorno di colui che è già venuto. La speranza cristiana, dunque, non è caratterizzata dall’incertezza propria di ogni umano e naturale sperare: essa è attesa. Quest’idea è già presente nel verbo ebraico per dire “sperare” (qawah), connesso con l’immagine della corda. La speranza nella concezione ebraico-cristiana non fiorisce unicamente dal desiderio, ma corrisponde all’essere legati per mezzo di una robusta corda, ad un “Altro” da sé. Per questo nel cristianesimo la speranza diventa pratica di vita nella forma ad essa più propria, che è quella della perseveranza. Questo è detto a chiare lettere da Paolo: «Nella speranza siamo stati salvati»; poi aggiunge: «Se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). La speranza si realizza dunque come esercizio e pratica della carità: «Non siate pigri nello zelo; siate ferventi nello spirito. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (Rm 12,11-13). Dalle parole di Paolo risulta evidente come la speranza cristiana sia radicata fondamentalmente nella fede. La speranza, dunque, da un lato presuppone la fede, dall’altro la manifesta. Essa poi si esplica praticamente nella forma della perseveranza. È la speranza delle vergini sagge che non dubitano minimamente che il Signore verrà, solamente non sanno quando. Esse si tengono pronte, preparate a ogni momento (cfr. Mt 25,1-12). Nel cristianesimo sperare vuol dire durare: essere fedeli fino alla fine, ma soprattutto fedeli in ogni momento del tempo, certi dell’esito. Spesso la nostra speranza non è così marmorea. Essa conosce dubbi, fatiche. Eppure diventa voce che invoca e si affida.
È l’invocazione di Antonia Pozzi, poetessa milanese, anima grande e tormentata. In una lirica che intitola Preghiera[1] scrive:
Signore, tu lo senti
ch’io non ho voce più
per ridire il tuo canto segreto.
Signore, tu lo vedi ch’io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue consolatrici.
Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te ch’io riviva.
Perché tu sai, Signore, che in un tempo lontano
anch’io tenni nel cuore tutto un lago, un gran lago,
specchio di Te.
Ma tutta l’acqua mi fu bevuta, o Dio,
ed ora dentro il cuore ho una caverna vuota,
cieca di Te.
Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te,
ch’io riviva.
[1] A. Pozzi, Parole, a cura di A. Cenni – O. Dino, Garzanti, Milano 19982, 76.