Lc 13, 10-17

LA DONNA CURVA

1. Lectio

 Il miracolo della guarigione della donna curva, dopo un’introduzione spaziale e temporale (v. 10), è articolato in due pannelli. Nel primo pannello (vv. 11-13) sono in gioco due personaggi: Gesù e la donna curva, da lui dichiarata liberata; l’effetto è duplice: la donna si raddrizza e loda Dio. Nel secondo pannello (vv. 14-17) sulla scena si muovono Gesù e il capo della sinagoga, che accusa la folla; anche qui con un duplice effetto: gli avversari di Gesù sono svergognati, mentre la folla gioisce.
1. Ad un primo sguardo, pare che qui siamo di fronte ad un intreccio che ha semplice valore pragmatico: la donna ha una malattia cronica e viene guarita a motivo dell’intervento di Gesù, il quale a sua volta rimanda all’azione salvifica di Dio. Ma ad uno sguardo più profondo il grande tema qui è il sabato e la sua interpretazione: una prima lettura è rigida, quasi sclerotica (quella del capo della sinagoga); la seconda lettura (quella di Gesù), invece, è molto più aperta e capace di recuperare l’autentico senso del sabato.
Il racconto, d’altra parte, ritorna su altri temi cari a Luca: quello della liberazione e della salvezza, cui alcuni oppongono un netto rifiuto.
Come si diceva, il racconto è ambientato in giorno di sabato nella sinagoga. Il richiamo alla prima predica a Nazareth, in giorno di sabato e proprio all’interno di una sinagoga (cfr. Lc 4,16) è molto forte. Centrale, senza dubbio, il riferimento al tema del sabato. La grande cattedrale d’Israele non è il tempio ma il tempo. La rivelazione di Dio è dentro la storia, sicché la tradizione ebraica (e poi quella cristiana) mira alla santificazione del tempo e non degli spazi. Il tempo, infatti, è la vita umana, è la storia delle persone, è lo “spazio” della comunione con Dio. Il sabato dunque si rivela il tempo santificato da Dio, il momento in cui l’eterno entra nel tempo umano.
Ma è necessario compiere un passo alla volta e anzitutto considerare la differenza delle due edizioni del comandamento a proposito del sabato. Proprio infatti sul sabato le due versioni (di Esodo e di Deuteronomio) differiscono.
Partiamo dalla versione esodica, la quale recita:
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato (Es 20,8-11).
Il passo anzitutto insiste sulla necessità di un giorno di riposo. Come è noto questo comandamento è preso ancora oggi alla lettera da Israele e il giorno del sabato è davvero un giorno di riposo: in esso non si accende il fuoco, non si guida, non si viaggia; si sta in casa, si va in sinagoga, si visitano amici e parenti, ci si santifica tramite la preghiera e lo studio della Torah.
Ma a che cosa rimanda il sabato? Nel sabato è inscritta la finitezza del creato: il mondo ha una fine, la creazione ha un limite. Celebrare il sabato è riconoscere il proprio limite creaturale, cioè accettare la propria morte, accettarla in pace e in obbedienza a Dio. Ma la creazione non ha solo una fine; essa ha pure un fine, cioè uno scopo e tale scopo è la partecipazione all’eternità di Dio. In altre parole l’uomo non viene dal caos ma da un progetto, non va verso la dissoluzione ma verso la comunione.
In particolare il comandamento esodico ricorda esplicitamente la benedizione di Dio nel settimo giorno, così come la narra il libro della Genesi. Dice il racconto:
Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. 3Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando (Gen 2,1-3).
Sia il comandamento esodico, come il testo di Genesi ricordano due momenti differenti: il primo è un momento negativo, cioè l’astensione dal lavoro. Ma tale negatività è immediatamente controbilanciata dal gesto positivo di Dio che benedice il settimo giorno. Che cos’è la benedizione? Il termine ebraico barak indica il ginocchio, un eufemismo per indicare gli organi sessuali maschili, cioè la fecondità. La benedizione è fecondità, è generazione, è posterità. L’uomo, ben conscio della propria morte, è toccato dall’eternità di Dio proprio nella benedizione che diventa fecondità, posterità, futuro. Ma occorre aggiungere un’importante precisazione. Dio promette che la benedizione accompagnerà l’uomo in tutta la storia così che l’uomo, osservando il sabato, potrà conoscere il Signore come la fonte della benedizione e accedere alla benedizione, riceverla, trarne vita, pace, pienezza di gioia e di sicurezza. Il sabato è la distribuzione della benedizione di Dio nella storia: ogni uomo osservando il sabato, riceve la benedizione di Dio, cioè partecipa alla sua eternità.
Ma c’è un secondo verbo: “santificare”. Esso esprime l’idea della separazione, della distinzione dagli altri giorni. Il giorno di sabato non è un giorno feriale, ma un giorno festivo, speciale, diverso, separato. Esso annuncia che quel giorno è abitato da Dio, interamente inabitato dalla sua presenza. Il sabato così diventa il giorno della manifestazione della presenza di Dio, anticipazione della piena comunione con l’eternità. L’ultimo giorno della settimana, santificato, anticipa il giorno ultimo dell’uomo, il giorno escatologico, quella della piena comunione con Dio.
Ma v’è un terzo importante accento. La ragione della celebrazione del sabato, come già si diceva, rimanda al riposo di Dio al termine della creazione. Che cosa indica questo particolare? L’accento è posto sulla dignità dell’uomo fatto ad immagine e secondo la somiglianza di Dio, come ricorda Genesi: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1,26-27). Proprio perché l’uomo è stato creato a immagine di Dio, partecipa alla dignità di Dio e nel giorno di sabato si riposa come Dio si è riposato.
L’uomo, a differenza dell’animale, ha coscienza del tempo. Egli cioè distingue i giorni che non sono tutti uguali e per questo può riposarsi. Astenendosi dal lavoro, cioè distinguendo i tempi dell’esistenza, l’uomo mostra e dimostra la sua dignità, cioè di essere fatto a immagine e somiglianza di Dio.
La versione del Deuteronomio è differente. Dice:
12Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato (Dt 5,12-15).
È sottolineato il valore pasquale del sabato. Il Signore ha strappato Israele dalla schiavitù dell’Egitto, lo ha fatto emergere dal mar Rosso e gli ha dato l’alleanza sul monte Sinai. Il Signore è il go’el d’Israele, cioè il suo protettore, il suo redentore. Poiché Dio si è ricordato d’Israele, Israele si ricorderà di Dio nella celebrazione del sabato. L’accento qui è diverso: non va tanto sulla dignità dell’uomo ma sulla libertà del popolo e sulla redenzione operata da Dio nel tempo. Israele non è un popolo di schiavi ma un popolo di persone libere, meglio, un popolo di schiavi che è stato liberato e che ora assapora la libertà. Per lo schiavo non c’è il giorno libero, ma tutti i giorni sono uguali, perché sono solo giorni di lavoro. Per l’uomo libero, invece, il tempo della festa è tempo dove si fa memoria della propria libertà. Astenendosi dal lavoro l’uomo mostra di essere signore del tempo e dunque libero, non sottoposto alla triste schiavitù.
Ma v’è pure un altro aspetto da ricordare. Astenendosi dal lavoro per un giorno l’uomo si ricorda che il mondo è già stato creato e continuerà ad esistere anche senza il suo supporto. È un modo per relativizzarsi, per non pensarsi onnipotenti, per capire di essere dentro il flusso del tempo nel quale il Signore continua ad operare, non senza di noi, ma senza che nessuno sia indispensabile.
Il sabato, dunque, prende due pieghe: la prima pone l’accento sulla dignità della persona, mentre la seconda sulla libertà del popolo. Ne consegue che il sabato custodisce l’una e l’altra, la dignità e la libertà.
2. La descrizione della malattia della donna va oltre la semplice descrizione fisica. Due sono le letture che il testo stesso propone: la prima è quella del narratore («C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni» [v. 11]) e la seconda è quella di Gesù («questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni» [v. 16]). Tuttavia, nel messaggio del narratore si può scoprire indirettamente il punto di vista della donna sulla sua malattia: «era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta» (v. 11); la chiave potrebbe essere trovata nel termine «in alcun modo» (v. 11). Oltre a denunciare la gravità della malattia, il narratore apre una possibile porta alla percezione che la donna ha di ciò che le sta accadendo: ella sperimenta l’impossibilità di rialzarsi, alludendo probabilmente alla durezza dei limiti e delle pressioni che subisce. Le spiegazioni del narratore e di Gesù coincidono nel sottolineare, con espressioni diverse, che la malattia della donna è in relazione a qualche spirito (o a Satana) che le ha fatto del male. La donna non è posseduta. Il fatto che Satana l’avesse «legata» non deve necessariamente essere identificato con la possessione. È una credenza diffusa nel mondo antico che spiriti e demoni causino malattie e sventure, ma non sempre assumono il controllo completo delle persone. In alcuni casi (cfr. Lc 6,18), gli spiriti “infastidiscono” le persone, ma non ne prendono possesso e, pertanto, esse vengono “guarite”. Quanto al nostro episodio, diversi elementi indicano che non si tratta di una possessione: la descrizione della malattia non coincide con la possessione (urla, percosse, etc.); la sua liberazione è descritta come una «guarigione» (v. 14); Gesù si rivolge alla donna e non al demonio, pone le mani su di lei, un gesto mai associato a questo tipo di pratica. La donna è afflitta da una malattia che l’ha tenuta paralizzata per un periodo abbastanza lungo da qualificarsi come malattia cronica, una situazione più temuta della morte. Inoltre appare integrata nella sinagoga, come anche l’uomo dalla mano paralizzata (cfr. Lc 6,6-10) e l’indemoniato (cfr. Lc 4,33-36). Le caratteristiche, la lunga durata (diciotto anni) e la descrizione acuta della malattia («non riusciva in alcun modo a stare diritta» [v. 11]), precisano anche le gravi conseguenze di quella condizione. Questi non sono semplici dati sullo stato fisico della donna, ma piuttosto riflettono il mondo sociale in cui la malattia si manifesta e si dispiega, e le ripercussioni che ha avuto sulla vita della donna. Gli effetti influenzano anche il suo rapporto con Dio, poiché quel mondo interpretava le malattie croniche come un castigo divino.
Inoltre nel mondo greco-romano (familiare a Luca e al suo uditorio) v’era una grande attenzione alla fisiognomica, ovverosia al valore interiore e morale dell’aspetto fisico. Luca precisa che la donna era «curva», che «non riusciva in alcun modo a stare diritta» e che aveva «uno spirito di infermità» (v. 11). Nei trattati antichi di fisiognomica si precisa che una schiena sottile e fragile è segno di debolezza, mentre una schiena forte e dritta è segno di forza; inoltre, la schiena curva indica una cattiva disposizione, testimoniata dal fatto che il volto non si può vedere. Sicché il problema della donna curva non è fisico ma morale. La presenza poi di «uno spirito di infermità» può essere inteso come segno di debolezza sociale ed economica (cfr. At 20,35). L’attribuzione della malattia alla forza di Satana (v. 16), invece, è la spiegazione giudaica dell’infermità della donna. Il metodo zoologico della fisiognomica aggiunge qualcosa: il paragone con gli animali permette di individuare altre caratteristiche. Luca cita il bue e l’asino (v. 15), che nei trattati sono il simbolo rispettivamente della pigrizia e della codardia. Si comprende allora il capovolgimento: gli avversari di Gesù in giorno di sabato slegano animali che sono il simbolo stesso della stupidità, senza rendersi conto che Gesù ha liberato una donna che nell’ apparenza della fragilità era una «figlia di Abramo» (v. 16).
Il racconto, come si diceva, è in due parti distinte e articolate, inviando un messaggio chiaro ai lettori: uomini e donne appartengono a sfere diverse e distanti. Le donne non fanno esplicitamente parte della discussione sul sabato. È una questione che riguarda gli uomini e sembra che la parola e l’atteggiamento delle donne non contino. Infatti, il capo della sinagoga non sfoga la sua ira con la donna, ma con la folla (v. 14). Se avesse considerato la sua interlocutrice in pubblico, il suo gesto sarebbe stato considerato disonorevole. D’altra parte, la discussione avviene fra Gesù e i suoi avversari, coinvolgendo così anche la folla. Tuttavia, il fatto che l’evangelista abbia collegato le due parti, spostando la risposta corale del popolo – un fatto tipico dei suoi racconti di guarigione – alla fine della controversia (v. 17), consente di stabilire connessioni tra una parte e l’altra. In particolare, ci consente di riposizionare l’unica azione che viene attribuita alla donna una volta guarita: dare gloria a Dio (v. 13).
Il racconto presenta quindi una donna che contribuisce all’onore di Gesù affermando che le sue azioni sono un riflesso della gloria divina e che Dio agisce in lui. Riconosce nell’azione guaritrice di Gesù ciò che è veramente importante e centrale: Gesù agisce con la potenza di Dio. In questo risiede la sua unicità. Il narratore aggiudica alla donna la sua opinione sugli insegnamenti e sulle pratiche di guarigione di Gesù. Gli occhi femminili hanno saputo riconoscere in Gesù la manifestazione visibile del Dio invisibile, la vicinanza della sua salvezza nel tocco guaritore di Gesù. Luca non ha giudicato inappropriato il comportamento pubblico di questa donna.
3. Il racconto della guarigione della donna curva è fortemente caratterizzato dalla presenza del divino. In primo luogo Gesù non compie il miracolo, lo notifica (v. 12) come opera già realizzata da Dio; il passivo teologico (cioè un verbo il cui soggetto è Dio) «sei liberata» è un segnale in tal senso: ciò indica che Gesù e il narratore vedono nella guarigione l’opera di Dio. La donna reagisce glorificando Dio (v. 13) e non Gesù, mostrando di interpretare anch’ella l’avvenimento nello stesso modo. Inoltre, allorché Gesù risponde agli avversari, opponendo il legame di Satana e lo scioglimento che è avvenuto (v. 16), utilizza ancora una volta un verbo passivo («essere liberata»), che rimanda all’azione di Dio. Infine il verbo «doveva» (“bisognava”, in greco édei, v. 16) indica proprio la volontà salvifica di Dio che si manifesta per mezzo di Gesù. Non è un caso che subito dopo il miracolo vi siano le uniche parabole lucane che hanno a tema il regno di Dio: il granello di senape e il lievito (cfr. vv. 18-21). Il Regno si fa riconoscere in atti e in parole che mostrano la signoria di Dio in mezzo agli uomini.
Infine, in risposta alla critica del capo della sinagoga Gesù parla della donna come di una «figlia di Abramo». Si tratta di una definizione molto singolare (cfr. 19,9), che dice la verità della donna. Ella ha ripreso tutti i suoi diritti come membro del popolo dell’alleanza, mentre la sua condizione fisica era interpretata come un segnale della potenza di Satana. La promessa ad Abramo era cantata da Maria (cfr. 1,55) e da Zaccaria (cfr. 1,72); poi, attraverso Giovanni il Battista, si ribadiva che la famiglia dei figli di Abramo non era limitata dai calcoli umani (cfr. 3,8). Il compimento della promessa rivolta al patriarca avviene attraverso un radicale cambiamento che include la riammissione di persone partecipi alla promessa, come la donna curva e Zaccheo. Appartenere alla discendenza di Abramo significa quindi godere della salvezza divina, attraverso la quale si realizzano le promesse divine fatte ad Abramo (cfr. Gen 12). Gesù è colui attraverso il quale questa salvezza si concretizza nella storia del popolo eletto. Non è certo possibile che una «figlia di Abramo» rimanga legata a Satana, tanto meno per un periodo così lungo di diciotto anni. Inoltre, la liberazione di questa figlia di Abramo nel giorno di sabato rivela come questa identità porti un nuovo esito alla vita di questa donna, come parte del piano divino di salvezza.
2. Meditatio
Che cosa dice alla nostra vita cristiana questo episodio?
1. Prendo le mosse da un particolare singolare e curioso. Il numero diciotto in greco si scrive con due lettere: iota (dieci) e eta (otto), esattamente come si abbrevia il nome di Gesù. Secondo una lettura abbastanza originale, negli anni della sofferenza di questa donna è iscritto il nome di Gesù, il suo Salvatore. Che cosa ne viene? Noi facciamo l’esperienza della salvezza. E questo proprio allorché la vita ci riserva il tempo della malattia e della prova.
Che cos’è l’esperienza del dolore? Che cosa rappresenta per una persona il soffrire? Il dolore in primo luogo è un danno, una perdita. Ci ammaliamo e non possiamo più fare quello che facevamo prima. Lavoravamo e non siamo più in grado, incontravamo tante persone e non le reggiamo più, sceglievamo come impiegare il nostro tempo e ora dobbiamo sottostare ad altri ritmi. Col corpo noi solitamente percepiamo il mondo: agiamo, ci muoviamo, afferriamo le cose, entriamo in relazione con gli altri. Quando ci ammaliamo il corpo diventa una barriera e non è più uno strumento di comunione. Coi denti mastico e non penso mai di averli in bocca, ma se mi duole un dente lo sento e lo percepisco come una barriera che mi impedisce di mangiare.
Il dolore ci fa sentire soli, ci isola dalla realtà, dalle relazioni con gli altri. D’un tratto le persone assumono un volto differente. Alcuni che ritenevamo vicini si fanno lontani; altri spariscono del tutto; altri ancora ci riversano addosso parole vuote, inutili, del tutto inadeguate; altri poi raccontano solo di sé, narrando esperienze personali lontane e nemmeno paragonabili al dolore che stiamo provando; ci sono poi coloro che si parano dietro il galateo e dopo mesi di assenza dicono che non ci sono stati per non disturbare, per evitare di affaticarci. Il numero degli amici si assottiglia, il gruppo di coloro che sanno starci vicino si fa esiguo.
Nel dolore noi ci interroghiamo: «perché soffro?», «perché proprio a me?», «perché capita proprio a quella persona che mi è cara?». Ci sfiora sempre l’idea che il dolore patito sia la conseguenza di un peccato, che noi in qualche modo stiamo espiando una colpa, che in fondo la sofferenza sia un castigo dall’alto. Ci chiediamo: quale colpa, quale peccato, quale male abbiamo commesso? E spesso non troviamo risposta perché in effetti non abbiamo alcuna colpa, non ci siamo macchiati di alcun peccato, non abbiamo commesso alcun male. Ma di nuovo: «perché, allora, innocente soffro?».
Anche l’isolamento di questi giorni è un’esperienza di sofferenza. A noi non pesa tanto la distanza fisica, quanto più il sospetto che qualunque persona possa essere un potenziale nemico e noi, reciprocamente, possiamo diventare untori inconsapevoli di un male oscuro e nascosto. Se proprio per mezzo del sospetto il serpente ha inoculato il veleno del peccato nel cuore di Eva e di Adamo, vivere questa sistematica paura di tutto e di tutti fa percepire un fastidioso senso di colpa che vorremmo scrollarci di dosso senza però riuscirvi.
Gesù sulla croce mostra un corpo martoriato, abusato, vilipeso. Gesù sulla croce è solo, abbandonato da tutti i suoi discepoli fuggiti per codardia. Gesù sulla croce urla, invoca Dio, poi tace e attende la morte.
La sua storia è la storia di ogni uomo, la sua sofferenza non differisce da quella di ogni persona sulla terra. A guardarla dal venerdì santo questa storia è una storia umana come tutte, è una vicenda come la vicenda di ogni uomo. Questa storia, però, non si è arrestata al venerdì santo. Il Signore è risorto, ha vinto per sempre la morte. Dal sepolcro la vita è deflagrata! Ed è proprio a partire da quella tomba vuota del mattino di Pasqua che noi facciamo un passo indietro al venerdì santo e ci chiediamo: «perché il Signore ha voluto soffrire così?», «perché Gesù è morto su una croce?». Pensando alla potenza del Risorto guardiamo alla croce. E comprendiamo che Dio non ha intenso mostrare la sua forza, la sua potenza, la sua giustizia. Piuttosto ha abbracciato la nostra povera umanità, ha condiviso sino in fondo la nostra sofferenza, sino alla morte di croce.
Guardo la croce: non vedo un dio che trionfa, ma un uomo che muore. Guardo la croce: non si manifesta un dio che schiaccia i suoi nemici, ma un uomo che perdona. Guardo la croce: non c’è un eroe che si spezza ma non si piega, bensì un uomo che patisce come tutti. Se non fosse così Gesù sarebbe solo un trionfatore, un giudice, un personaggio mitico. Ma che bisogno abbiamo noi dell’ennesimo vincitore, dell’ennesimo uomo pieno di sé, dell’ennesimo mito? Guardo la croce: non è un mistero di forza e di giustizia, ma un mistero di compassione e d’amore. Colui che ha trionfato sulla morte, l’ha condivisa fino alla croce, perché nessun uomo si senta abbandonato, ma tutti, guardando al Dio crocifisso, possano comprendere la grandezza dell’amore di Dio che li tocca Ecco il legame del numero diciotto: la nostra sofferenza e la croce del Signore.
2. Il secondo spunto di riflessione riguarda il sabato, come giorno di dignità e di libertà. Qual è il senso della domenica cristiana? Il suo fondamento è la risurrezione. Scrive J. Ratzinger:
È valso in tutte le culture il principio che la festa presuppone un’autorizzazione che i partecipanti alla festa non possono darsi da se stessi. Non si può decidere di celebrare una festa, essa ha invece bisogno di un fondamento e per di più oggettivo che è anteriore ai propri desideri. […] Sullo sfondo c’è la domanda per eccellenza, la domanda sulle potenze del dolore e della morte cui nessuna libertà può opporsi. Chi non si pone queste domande si muove in un mondo di finzioni la cui miseria artificiale non può essere superata neppure da patetiche declamazioni sul dolore dei popoli oppressi, declamazioni che non a caso appartengono al nucleo comune di quasi tutte queste liturgie autoinventate. […]
Ma proviamo a tirare le conseguenze dal positivo che abbiamo trovato! Abbiamo detto: la liturgia è una festa. Nella festa ne va della libertà, nella libertà dell’essere al di là dei ruoli. Ma dove emerge l’essere fa anche capolino la domanda sulla morte. A questa domanda deve anzitutto rispondere la festa. Facendo il processo inverso: la festa presuppone l’autorizzazione alla gioia; questa autorizzazione è valida solo se è in grado di far fronte alla domanda sulla morte. Proprio per questo la festa ha sempre avuto carattere cosmico e universale nella storia delle religioni: cercava di rispondere alla domanda sulla morte riferendosi all’universale potenza vitale del cosmo. Va da sé che l’inderivabile novità del cristianesimo è la risposta alla domanda comune di tutti gli uomini e quindi deve essere riferita ad un fondamentale contesto antropologico senza il quale proprio questa verità resterà incompresa.
Questa novità poi consiste nel fatto che la resurrezione di Cristo dà l’autorizzazione alla gioia ricercata da tutta la storia e che nessuno era in grado di fornire. Perciò la liturgia cristiana – Eucaristia – è per sua natura festa della resurrezione, Mysterium Paschae. In quanto tale essa porta in sé il mistero della croce che è poi l’intima premessa della resurrezione.
Per noi la domenica è il giorno della gioia, il giorno in cui celebriamo la risurrezione, il tempo nel quale già gustiamo la vita eterna.
3. Infine, ancora una volta, contempliamo l’umanità di Gesù. Gesù è colui che ridona dignità e libertà, è colui che fa gustare a questa donna curva una nuova vita. C’è un particolare molto bello di questo racconto. Gesù sa che la donna è stata prigioniera di Satana per diciotto anni. Egli cioè conosce il dettaglio della sofferenza. Questa singolare osservazione sottolinea che Gesù sa della vicenda biografica della donna, al punto che utilizza la lunghezza del suo patire come argomento per la sua liberazione. Detto altrimenti, per Gesù nessuno è sconosciuto, ma è ben noto nei particolari della propria vicenda personale, addirittura nei dettagli della propria storia, non raramente fatta di fatiche e patimenti.
Sentiamoci conosciuti da Gesù! Percepiamo sulla nostra pelle la sua presenza amorevole e attenta! Non sentiamoci abbandonati da lui! La sua presenza è salvezza, la sua potenza è vita, la sua azione è liberazione dal male!